OGM:LETTERA APERTA AL VICE PRESIDENTE DELLA COLDIRETTI

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  1. claudiocosta
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    Piante OGM: qualità alimentare e sicurezza ambientale

    Francesco Sala

    1. Introduzione e premesse
    Scopo di questo scritto è quello di fornire dati ed informazioni per la lettura delle disordinate, lacunose e contraddittorie notizie che da alcuni anni, e da più parti, ci arrivano sulle piante geneticamente modificate (piante OGM) e sui prodotti da esse derivati. E non solo su questi: oggi una diffusa diffidenza contrasta il lavoro che i nostri genetisti stanno sviluppando per il miglioramento genetico dei prodotti agricoli. Sulla confezione di un prodotto vegetale in vendita presso una grande catena alimentare, ho recentemente letto la scritta: “ Prodotto naturale, non genetico”. Dunque, non solo degli OGM dovremmo diffidare, ma del miglioramento genetico delle piante coltivate, della genetica vegetale in genere. In verità, tutti i prodotti vegetali di cui oggi facciamo uso sono il risultato delle modifiche genetiche sviluppate nell’ultimo secolo.
    Soprattutto dopo l’enunciazione dei principi della trasmissione dei caratteri ereditari da parte di Gregor Mendel (1822-1884), l’uomo imparò a modificare estesamente il DNA delle piante coltivate per aumentare la quantità e migliorare la qualità delle produzioni vegetali. A tale scopo vennero applicate le metodologie messe a disposizione dalla scienza in ogni momento storico. L’unico vegetale “naturale” di cui qualche volta ci cibiamo è, forse, la fragolina di bosco (ma non certo la fragola gigante che troviamo nei negozi).

    Alcune premesse e risposte ad alcuni dubbi sono dunque indispensabili.

    Primo: le bocche da sfamare sono in aumento
    La popolazione mondiale è in rapido aumento: eravamo meno di un miliardo all’inizio del secolo XX. Siamo cresciuti a 2,5 miliardi nel 1945, oggi dopo appena 60 anni da questa data. La popolazione è triplicata. Siamo arrivati a più di 6,5 miliardi. Le previsioni sono che entro pochi decenni la terra avrà più di nove miliardi di abitanti. Non solo, ma i 2,5 miliardi di cittadini di Cina ed India, così come altri abitanti di altre nazioni in via di sviluppo, sono sempre meno poveri ed esprimono esigenze alimentari sempre più elevate. La produzione di alimenti deve quindi fortemente aumentare nei prossimi decenni.

    Secondo: la terra arabile non è infinita: agricoltura intensiva o estensiva?
    Tutti gli alimenti, sia vegetali, sia animali, dipendono, in definitiva, dalle coltivazioni vegetali, dall’agricoltura. E’ la fotosintesi che, utilizzando l’energia radiante del sole, fornisce i prodotti vegetali (soprattutto cereali e leguminose) di cui usufruiamo per l’alimentazione umana diretta oppure come foraggio per gli animali di allevamento. Le produzioni agricole mondiali dovranno quindi raddoppiare entro il 2050. La società chiede dunque alla scienza di dare risposte celeri e sicure a questa necessità. Ma, come si evince dalla Fig. 1, la terra arabile su questo pianeta non è infinita. Sta aumentando la popolazione mondiale, ma sta contemporaneamente diminuendo la terra arabile sulla superficie terrestre; tra le cause, l’aumento delle terre aride, la scomparsa di terreni agricoli dovuti all’urbanizzazione, la destinazione dei campi ad usi industriali. Tutto ciò fa prevedere che, entro il 2050, sarà necessario utilizzare tutta la terra arabile del pianeta per produrre cibo sufficiente per tutta l’umanità. Non un metro quadro sarà più disponibile per lo sviluppo di foreste e praterie. Non un metro potrà essere lasciato alla conservazione della biodiversità naturale o a scopi ricreativi (parchi e riserve di pregio storico). Dopo di tale data, uno sviluppo ulteriore della popolazione globale del pianeta comporterebbe l’impossibilità oggettiva di produrre sufficiente cibo per tutti. L’attuale aumento dell’uso di coltivazioni vegetali per scopi non alimentari (ad esempio mais e pioppo per produrre energia) fa temere che questa data possa arrivare ancor prima.
    Tutto ciò assumendo che il livello di produttività (prodotto vegetale per unità di superficie) per le diverse coltivazioni rimanga costante agli attuali livelli. La ricerca scientifica degli ultimi 50 anni ha in qualche caso aumentato la produttività vegetale, ma non certo con la rapidità oggi necessaria.
    In definitiva, è indispensabile che la ricerca scientifica trovi i mezzi per aumentare la produttività agricola mondiale in modo molto più consistente. Le agricolture alternative (biologica, biodinamica, ed altre), così come sono oggi concepite, potranno avere in futuro solo un valore di nicchia, ma non potranno mai assumere una rilevanza mondiale, a meno che non risolvano il problema chiave della limitata produttività.
    Si consideri soprattutto quali preoccupazioni possano creare queste considerazioni in Paesi emergenti quali la Cina e l’India. Paesi in crescita demografica ed economica, in cui quindi aumentano le bocche da sfamare ma anche le esigenze alimentari del singolo cittadino. Paesi cui la terra arabile è già scarsa ed è già quasi tutta essenzialmente dedicata all’agricoltura.

    Terzo: come conservare la biodiversità in natura e quella dei prodotti coltivati?
    L’aumento della produttività deve anche essere considerato un mezzo per difendere la biodiversità nei paesi ricchi.
    Due esempi italiani a proposito della difesa della biodiversità in natura:
    (1) il nostro Paese produce oggi circa 1,3 milioni di tonnellate di riso. Per fare ciò, con una produttività media di circa 6 tonnellate per ettaro, utilizza circa 220.000 ettari nelle province di Novara, Pavia e Vercelli. Se la produttività fosse, ad esempio, raddoppiata, sarebbe possibile produrre la stessa quantità di riso su una superficie dimezzata. Il resto del territorio potrebbe avere altre destinazioni, incluso il ritorno allo biodiversità naturale, vista anche, nel caso specifico, la contiguità con l’ampia zona verde del Parco del Ticino.
    (2) Siamo grandi coltivatori di pioppo. Ma contemporaneamente stiamo distruggendo la biodiversità del pioppo naturale. Infatti, i cloni coltivati si ibridano con le piante selvatiche oggi ancora presenti negli stessi habitat in cui sono diffuse le coltivazioni di pioppo. La disponibilità di cloni di pioppo OGM sterili (la pianta coltivata viene riprodotta solo per talea) non permetterebbe l’incrocio tra pioppo coltivato e pioppo selvatico, salvando quindi la biodiversità in natura.

    La metodologia OGM è anche accusata di distruggere la diversità dei prodotti coltivati. Ad esempio, si dice che una volta si potevano trovare decine o centinaia di varietà di mele diverse. Ora i supermercati ne propongono poche varietà, proprio quelle che vengono reclamizzate dai mass media. La mela OGM, non ancora disponibile in commercio, non è per nulla responsabile di questa riduzione di diversità. Le vere cause sono invece da ricercarsi nelle attuali e specifiche esigenze commerciali!

    Quarto: i prodotti OGM sono sicuri e sono di qualità?
    Nel secolo scorso, sino agli anni ’70, le attività di miglioramento genetico dei vegetali erano essenzialmente dedicate alla selezione di piante più produttive e di più alta qualità. Ciò fu particolarmente vero per il nostro Paese che sviluppò attività di grande rilievo internazionale. In quel periodo, contemporaneamente allo sviluppo della genetica vegetale, vi era stato un grande sviluppo della ricerca chimica applicata all’agricoltura. Insetticidi, fungicidi, fitoregolatori ed altre molecole venivano immesse sul mercato a ritmo continuo. Questo evento aveva indirizzato la ricerca alla qualità e alla produttività. Al controllo dei parassiti avrebbe pensato la chimica! E, comunque, questo approccio era appannaggio dei Paesi ricchi.
    Ma successivamente nuove preoccupazioni prepotentemente sorsero. non solo nei Paesi ricchi, ma anche in quelli emergenti, soprattutto in Cina e India. Erano 800 milioni le persone che si potevano permettere un’agricoltura supportata dalla chimica; oggi questo numero è cresciuto a più di 3 miliardi. Le preoccupazioni per gli equilibri ambientali sono aumentate di conseguenza.
    Siamo oggi consapevoli e preoccupati del fatto che:
    Primo, i trattamenti in agricoltura sono preoccupanti per la salute umana e, comunque, troppo costosi per il sistema agricolo. Secondo: La selezione naturale di parassiti sempre più aggressivi ci obbliga ad abbandonare diverse cultivar o ad aumentare gli interventi chimici. Ad esempio, decine di interventi sono ormai necessari nelle coltivazioni dei meli nel nostro Paese. Il pomodoro San Marzano è distrutto dagli attacchi del virus CMV. Terzo: Una agricoltura così diffusa nel mondo e così aggressiva per l’ambiente può rappresentare un pericolo per la biodiversità del mondo vivente, sia vegetale che animale.
    Oggi dunque l’opinione pubblica chiede che la scienza fornisca non solo i mezzi per produrre più prodotto per unità di superficie, ma anche per ridurre l’intervento chimico nei campi e per salvare l’ambiente e la biodiversità animale e vegetale. Ma come combinare quantità e qualità del prodotto, protezione della salute e della biodiversità ambientale?
    La convinzione dei ricercatori scientifici è che potremo perseguire queste finalità, ed avremo forse qualche probabilità di successo, se svilupperemo un grande sforzo nella ricerca scientifica utilizzando tutti mezzi e le metodologie che la scienza ci mette oggi, e ci metterà in futuro, a disposizione. E’ chiaro che ciò è condizione necessaria ma non sufficiente: la società, la politica, dovranno fare la loro parte, ma questa è una materia che non fa parte delle riflessioni di questo scritto.
    Si discute molto, oggi, anche di qualità dei prodotti vegetali. Si afferma: le mele, le pere, le verdure di oggi non hanno più alcun sapore. Nulla a che vedere con i sapori dei prodotti dei nostri nonni, o del nostro giardino, per chi ha ancora la fortuna di coltivarne uno. Tutta colpa degli OGM, è il messaggio che ci arriva: aumentano la produttività, ma perdono in qualità. Niente di più falso. L’integrazione di un gene nel DNA di una pianta non interferisce con la sua qualità, a meno che deliberatamente non si voglia intervenire migliorandola geneticamente. La perdita di qualità di molti prodotti agricoli è oggi invece legata ad esigenze commerciali: si colgono i prodotti non ancora maturi, li si trasportavano per lunghe distanze e li si conservano in celle frigorifere sino a quando sarà commercialmente proficuo metterli in commercio. A questo punto li si fanno maturare con un trattamento con l’etilene. E’ questo un gas che promuove naturalmente la maturazione dei frutti sulla pianta, ma che non può sviluppare tutte le fasi della maturazione nelle celle frigorifere. Il pomodoro o la mela, ad esempio, saranno rossi all’esterno, ma non completamente maturi all’interno.

    Quinto: l’agricoltura biologica si contrappone all’agricoltura OGM?
    La contrapposizione agricoltura biologica / agricoltura OGM è del tutto pretestuosa e dipende forse più da esigenze commerciali che da considerazioni scientifiche.
    Infatti, il “Disciplinare del biologico” prevede una limitazione dell’uso della chimica in agricoltura, ma questo, come abbiamo visto rientra anche nelle finalità della ricerca sulle piante OGM
    Ma attenzione, l’odierna agricoltura biologica presume la coltivazione delle varietà vegetali oggi disponibili senza l’uso di trattamenti chimici. Però le attuali varietà coltivate, si è detto, sono state selezionate per essere protette con molteplici trattamenti. I loro difetti genetici le rendono sensibili ai parassiti più diversi e a molte avversità ambientali. L’agricoltura tradizionale è quindi oggi costretta ad usare trattamenti chimici, se vuole mantenere la produttività a livelli accettabili. L’agricoltura biologica li bandisce. Ma i trattamenti antiparassitari naturali proposti sono o inefficaci o pericolosi. Ne è un esempio il verderame (formulato nella ben nota “Poltiglia Bordolese”), permesso dal disciplinare dell’agricoltura biologica e largamente usato per la protezione dei vigneti, nonostante siano ben noti i pericoli per la salute umana (irrita le mucose, provoca nausea e abbassamento della pressione sanguigna) e per l’ambiente (molto tossico per gli ambienti acquatici).
    Un’agricoltura biologica efficace e sana dovrebbe invece basarsi sull’utilizzo di nuove piante geneticamente selezionate per la resistenza ai parassiti e agli stress ambientali. Piante, quindi, che non necessitino di alcun trattamento, sia “chimico”, sia “biologico”. Ma ciò oggi non è possibile per la maggior parte delle piante coltivate! L’introduzione di queste caratteristiche di resistenza è invece un risultato già ora spesso perseguibile con l’uso della metodologia OGM.

    Per un più approfondita analisi di questi argomenti, si rinvia a: F. Sala “Gli OGM Sono Davvero Pericolosi?” Editori Laterza. 2005

    2. Il miglioramento genetico delle piante coltivate
    La Tab. 1 elenca le metodologie di miglioramento genetico oggi messe a disposizione dalla scienza.
    - L’incrocio produce nuove combinazioni cromosomiche. E’ ancora oggi estesamente sfruttato per produrre ibridi da cui selezionare piante con migliorate caratteristiche agronomiche. La metodologia funziona come nell’incrocio tra animali, in cui le caratteristiche genetiche della progenie derivano, in ugual misura, dal DNA del maschio e della femmina. Il genetista adotterà poi metodi selettivi diversi per selezionare piante con le qualità agronomiche e commerciali desiderate.
    - La poliploidia, ottenuta con trattamento con agenti poliploidizzanti (trattamento con colchicina), permette la produzione di piante con corredo cromosomico 3n, 4n, 6n e più. Frequentemente le piante poliploidi presentavano caratteristiche agronomiche favorevoli.
    - La mutagenesi permette la modifica del DNA della pianta. Per ottenere frequenze sperimentalmente accettabili di mutagenesi si fa uso di mutagenesi indotta da mutageni chimici (sostanze mutagene) o da mutageni fisici (radiazioni ionizzanti). Questi trattamenti modificano estesamente il DNA della pianta, inattivano o attivano geni e, di conseguenza, le relative attività metaboliche. Le modifiche sono casuali ed estese. Il genetista applica poi procedure di selezione genetica per ottenere nuove piante con le caratteristiche agronomiche desiderate. La selezione richiede spesso diversi anni. Resta comunque nelle piante così ottenute l’incognita dei possibili rischi correlati con modifiche genetiche indesiderate.
    - L’integrazione di un gene esogeno nel DNA è l’acquisizione scientifica più recente. Le piante migliorate geneticamente con questa procedura sono oggi conosciute come piante OGM, anche se il termine è improprio. Organismi geneticamente modificati, cioè OGM, sono, in effetti, anche quelli ottenuti per incrocio, mutagenesi e poliploidizzazione. Si dovrebbe più correttamente parlare di “integrazione di geni esogeni” Sarebbe più corretta la dizione originaria di “piante transgeniche”. O, quantomeno, si dovrebbe scrivere “piante GM” (piante geneticamente modificate), in quanto il termine piante” renderebbe ridondante l’aggiunta di organismo (“O”). Tuttavia l’acronimo OGM (GMO in inglese) è ormai entrato nel lessico corrente.
    Un esempio classico di miglioramento genetico, ed anche un esempio dei successi della ricerca agronomica italiana è quello che riguarda il grano Creso. Oggi mangiamo pasta, pane, e dolci fatti con grano Creso. Questo frumento, cioè il grano duro (tetraploide, con 28 cromosomi) oggi prodotto nella maggioranza delle coltivazioni italiane, è stato ottenuto, nel 1974 nel Centro di Studi Nucleari del CNEN della Casaccia di Roma, irradiando semi della varietà Cappelli (dal nome del creatore di questa varietà) con raggi gamma provenienti da scorie di reattori nucleari. Non si tratta quindi di piante OGM, secondo l’attuale terminologia, ma si tratta pure di piante con un DNA profondamente modificato dall’uomo.

    Trattiamo in particolare, in questo scritto, della metodologia OGM. A questo proposito è necessario fare una prima importante precisazione: tutte le metodologie di miglioramento genetico sono complementari. Nessuna esclude le altre. La metodologia OGM si affianca alle altre fornendo nuovi potenti mezzi per sviluppare il miglioramento genetico delle piante coltivate.
    . Il trasferimento di geni tra organismi di specie diverse non rappresenta una novità sia nel mondo vivente, sia nei laboratori sperimentali. Da sempre sequenze di DNA sono trasferite da un organismo ad un altro anche senza passare attraverso l’ibridazione sessuale. La natura permette il trasferimento di geni, ma, al tempo stesso, controlla che questi trasferimenti, anche da batteri ad animali, non interferiscano con la diversità del mondo vivente, mantenendo quindi le differenze genetiche tra le specie.
    Inoltre, la produzione di piante OGM non rappresenta niente contro-natura. E’ infatti copiando la natura che la scienza ha messo a punto la metodologia OGM. Infatti l’attuale strategia si basa sull’interazione molecolare tra il DNA di un batterio e quello delle piante superiori, interazione già descritta negli anni ’70. Il batterio, l’Agrobacterium tumefaciens. è molto diffuso in natura ed è molto studiato perché capace di indurre crescita indifferenziata nei tessuti vegetali.
    Studi molecolari hanno stabilito che questo batterio è dotato, oltre che del DNA necessario per le sue attività vitali, anche di una molecola di DNA circolare (il Ti DNA o Ti plasmid (da Tumor inducing DNA) che porta geni che inducono la crescita tumorale nelle cellule vegetali. Un tessuto di una pianta infettato da questo batterio (frequentemente attraverso una ferita), lascia penetrare il Ti DNA. Un frammento di questo DNA, definito T-DNA, viene riconosciuto dalla pianta e viene integrato nel DNA della pianta stessa. La sequenza batterica così integrata dirige il metabolismo della cellula vegetale verso una eccessiva e indifferenziata proliferazione cellulare. Il risultato è la crescita di un tumore (crown gall o, in italiano, “galla del colletto”), spesso distinguibile sui tronchi e sui rami degli alberi come grosso ingrossamento a palla. Il tumore nelle piante arreca usualmente danni secondari alla pianta stessa e non rappresenta quindi una patologia rilevante in agricoltura.
    Una volta chiarito il procedimento con cui questo tumore si sviluppa, si pensò subito: perché non eliminare dal T-DNA le sequenze che portano i geni responsabili della crescita incontrollata e indifferenziata del tessuto ed inserire al loro posto uno o più geni di interesse agronomico? Le ricerche in tal senso ebbero successo. Nel 1983 ricercatori di due gruppi di ricerca pubblica (in Belgio ed in Australia) e di un’industria (Monsanto negli USA) pubblicarono contemporaneamente rendiconti su importanti riviste scientifiche dimostrando che il plasmide Ti, opportunamente modificato, era capace di integrare nel DNA di una cellula vegetale geni selezionati per le loro caratteristiche agronomiche. Ovviamente, il gene doveva essere corredato di appropriati segnali di espressione (sequenze del promotore e del terminatore, poste rispettivamente a monte e a valle del gene stesso) (Fig. 2).
    L’interesse pratico di questa dimostrazione risiede nel fatto che le cellule vegetali OGM così ottenute (Fig. 3) possono essere moltiplicate in laboratorio e possono poi essere indotte a differenziare piante complete e fertili. La Fig. 4 mostra appunto una piantina di pomodoro OGM ancora allevata su terreno di coltura in vitro, ma ormai pronta per essere recisa e posta a crescere in terra, ove differenzierà radici e, successivamente, fiori e frutti. Oggi l’integrazione di geni esogeni in piante superiori avviene secondo i principi di un evento naturale.
    E’ stata messa a punto un’altra metodologia, basata sul bombardamento delle cellule vegetali con particelle accelerate, ma per questo si rimanda a trattati specialistici.
    Niente “cibo Frankestein”, dunque, come viene spesso definito! E la metodologia è così naturale, semplice e poco costosa che può essere applicata in qualsiasi laboratorio, con bassi costi ed in tempi brevi. Anche nelle nostre Università molte tesi di laurea si basano sulla produzione ed analisi di piante OGM.
    Ovviamente, lo sfruttamento della metodologia richiede la disponibilità di geni di cui sia conosciuta dettagliatamente la funzione nella pianta, la sequenza in basi e le sequenze di controllo della loro espressione. Oggi, la scienza sta sfornando con crescente rapidità informazioni a proposito. Queste informazioni sono disponibili sulle riviste scientifiche e nei file informatici e sono utilizzabili da chiunque. Alcuni geni di particolare interesse agronomico sono vincolati a brevetti, ma anche questi sono resi disponibili in seguito ad accordi commerciali.

    3. Piante OGM nel mondo
    La Tab. 2 riassume gli ultimi dati resi disponibili dalla ISAAA sulla diffusione delle piante OGM nel mondo. L’ISAAA (Interntional Servive for the Acquisition of Agri-Biotech Applications) è un’agenzia internazionale nata senza scopo di lucro e senza legami con il mondo imprenditoriale. I dati da essa forniti annualmente, e resi pubblici nelle reti informatiche, mostrano come. siano già più di 114 milioni gli ettari coltivati ad OGM nel mondo. Questi sono diffusi sia in Paesi industrializzati sia in quelli in via di sviluppo. Anzi, è in questi ultimi che si registra il maggior numero di agricoltori addetti alla loro coltivazione. Una crescita superiore al 10% della diffusione degli OGM si è ripetute negli ultimi 10 anni. Ciò rappresenta un fatto non comune per tutte le innovazioni tecnologiche introdotte nei vari campi negli ultimi decenni!
    La Fig. 5 visualizza l’attuale distribuzione delle coltivazioni OGM nei diversi Paesi del mondo. Il colore verde contrassegna i Paesi che oggi producono OGM, Le zone del pianeta contrassegnate con colore chiaro o le proibiscono oppure, semplicemente, corrispondono a Paesi sottosviluppati (soprattutto africani) in cui è ancora impossibile ogni sviluppo tecnologico. Le 3 curve che attraversano la figura si riferiscono invece ai dati riguardanti i milioni di ettari dedicati alle coltivazioni OGM negli ultimi 11 anni. La loro lettura è interessante: sino agli anni ’98-’99 gli OGM erano essenzialmente prodotti dai Paesi industrializzati (soprattutto U.S.A. e Canada). Dopo di allora, i Paesi in via di sviluppo (soprattutto quelli asiatici) hanno sviluppato molto più rapidamente questo settore. Nel 2007 avevano quasi raggiunto il livello di produzione di OGM dei Paesi industrializzati. Oggi, nel 2008, è presumibile che li abbiano abbondantemente sorpassati. Vi è anche da considerare che i dati ufficiali per la produzione di OGM in Cina sono, verosimilmente, una grande sottostima. L’ISAAA calcola, per questo Paese, una produzione totale di OGM pari al 3-4% degli OGM prodotti nel mondo. Tuttavia questo dato sembra largamente in difetto: stime di altre agenzie portano questo valore anche al 20%. Probabilmente, vi è una grande discordanza tra i dati cinesi riguardanti le coltivazioni OGM ufficiali e quelle sperimentali. Queste ultime sono sviluppate anche su migliaia di ettari, valori che in Europa corrisponderebbero a ampie coltivazioni e non a sperimentazioni!
    La UE è molto critica sulla produzione di piante OGM sul suo territorio. In alcuni Paesi, come l’Italia, è proibita non solo la coltivazione di piante OGM ma anche la loro sperimentazione in campo aperto, anche se questa è effettuata da Enti pubblici. Tuttavia, a tutt’oggi, 7 Paesi della comunità già coltivano OGM per scopi commerciali. Fu la Spagna, 10 anni fa, ad aprire la strada con la coltivazione di alcune decine di migliaia di ettari di mais OGM, seguirono la Francia, la Germania e la Romania.
    Tra i fattori che limitano l’utilizzo dell’approccio OGM vi è da considerare anche quello relativo ai costi. Costa relativamente poco produrre una pianta OGM in laboratorio. Costa poco anche la sperimentazione in campo. Ne è testimonianza il fatto, qui sotto citato, che anche nel nostro Paese abbiamo assistito ad una fiorente attività di ricerca pubblica sulle piante OGM. Stanziamenti a livello di decine o poche centinaia di migliaia di Euro annuali sono sufficienti per sviluppare le attività di un buon laboratorio di ricerca pubblico. Ma tutto si ferma quando, dopo le opportune prove in campo (se permesse), i nostri Enti pubblici dovrebbero presentare la documentazione per la registrazione al Pubblico Registro della nuova varietà OGM, passaggio necessario per ottenere la licenza di commercializzazione. Venti milioni di Euro è la stima minima dei costi della sperimentazione necessaria per produrre i dati richiesti dalla UE per dimostrare l’assenza di pericoli per la salute e per l’ambiente. E ciò è ancora oggi obbligatorio anche se esaustive prove sperimentali sono già state effettuate per la stessa specie vegetale e per l’integrazione dello stesso gene. Ogni volta è obbligatorio produrre da capo tutti i dati relativi ad una lunghissima serie di controlli sperimentali. La restrizione dei controlli a quelli effettivamente necessari per verificare l’accettabilità del prodotto OGM potrebbe invece offrire ragionevoli possibilità applicative anche alla ricerca pubblica della UE.

    4. Chi controlla la produzione di piante OGM? Vi è spazio per l’Italia?
    Si afferma spesso che piante OGM non servono al sistema agricolo italiano. Questo dovrebbe invece mirare alla tipicità e alla qualità. Si afferma anche che la produzione di piante OGM è appannaggio di poche industrie multinazionali. Niente di più errato. In effetti le grandi industrie internazionali del seme presto si resero conto delle enormi potenzialità della metodologia OGM. Svilupparono, sin dal 1985, opportune ricerche ed iniziarono a sfruttare i loro prodotti nei mercati disponibili. Ma è importante fare una considerazione: le multinazionali si rivolgono a grandi mercati. I loro interessi sono quindi limitati alle”grandi colture”, soprattutto a soia, mais e colza,. A nessuna multinazionale del seme converrà infatti spendere 20 milioni di Euro per ottenere l’approvazione di un pomodoro San Marzano OGM! Addirittura, le multinazionali occidentali del seme non hanno interesse a condurre ricerche e a commercializzare riso OGM. Pur trattandosi del secondo cereale più coltivato sul pianeta, e pur presentando alcuni difetti genetici facilmente risolvibili con la metodologia OGM, questa specie non porterebbe loro sufficienti ritorni commerciali a livello mondiale. La produzione mondiale è consumata pressoché totalmente nei Paesi di produzione.
    La ricerca sulle piante OGM di interesse locale deve essere sviluppata localmente. Ed è appunto quello che sta facendo la Cina, con le sue piante più diversificate, incluso, soprattutto, il riso. Ma è anche quello che dovrebbe fare l’Italia, se vuole continuare a difendere la sua tradizione agricola, i suoi prodotti vegetali di qualità. Oggi li stiamo perdendo ad uno ad uno, soprattutto perché i parassiti divengono sempre più aggressivi e non controllabili con le tradizionali metodologie di miglioramento genetico. Il blocco all’utilizzo delle nuove metodologie OGM limita le possibilità di intervento della nostra ricerca all’’uso di metodologie di miglioramento genetico sviluppate prima del 1985. Sarebbe come decidere, per legge, che, nell’industria automobilistica, o in quella elettronica, fosse proibito utilizzare le innovazioni dell’ultimo ventennio!

    5. I prodotti tipici italiani hanno bisogno della metodologia OGM
    I nostri vegetali tipici, il pomodoro San Marzano, il riso Carnaroli, la vite Nero d’Avola non sono un dono della natura. Sono il risultato della intensa e ottima ricerca genetica ed agronomica svolta dai nostri scienziati nell’ultimo secolo. Questa ricerca continua oggi, ma con crescenti difficoltà, a causa delle ristrettezze economiche (minori fondi per la ricerca pubblica, ridotta ricerca privata nel settore) e delle restrizioni imposte alla sperimentazione sulle piante OGM.
    La ricerca italiana ha già prodotto e in molti casi sperimentato in campo (quando ciò era possibile) molte piante OGM. Tra queste: pomodoro, olivo, cocomero, cicoria, ciliegio, fragola, geranio, kiwi, lampone, lattuga, melanzana, melone, patata, riso, soia, vite, tabacco. Si tratta, per la maggior parte, di ricerca sviluppata da enti pubblici (Università. C.N.R. ed altri Enti di ricerca).
    Come riassume la Fig. 6, dall’anno 1992, e sino all’anno1996 assistemmo, in Italia, ad un costante aumento del numero delle sperimentazioni in campo di piante OGM. Il numero delle notifiche agli organi competenti e le effettive sperimentazioni superavano quelle degli altri Paesi della UE. Poi, dall’anno 2000, il tracollo: il numero delle notifiche si ridusse. Ma si ridussero ancor più consistentemente le effettive sperimentazioni. Cos’era successo? Semplicemente il Governo italiano aveva cambiato rotta:: dal supporto alla sperimentazione sulle piante OGM passò, in breve, alla completa avversione. Il finanziamento dei progetti nazionali di ricerca venne bruscamente interrotto dai Ministri in carica. Vennero anche introdotte leggi che proibirono le sperimentazioni in campo. I pochi test residui furono portati a compimento e mai rinnovati. Giovani e brillanti ricercatori si trovarono senza lavoro.
    Nel “periodo d’oro” della ricerca sulle piante OGM in Italia, la sperimentazione era distribuita su tutto il territorio nazionale (Fig. 7) ed era essenzialmente dedicata a specie di interesse nazionale. Le multinazionali del seme si limitavano a sperimentare su piante di loro interesse, soprattutto su mais e all’integrazione di geni che conferissero, soprattutto, resistenza a insetti e a diserbanti di nuova generazione. La ricerca pubblica si dedicava invece a ricerche più diversificate (Fig. 8).
    Quali caratteri genetici sono stati introdotti nelle piante OGM prodotte dalla ricerca italiana?
    La Fig. 9 dà un quadro degli effetti previsti nelle piante OGM prodotte nel nostro Paese e mostra la versatilità della metodologia e la sua applicabilità a problematiche locali.
    Per produrre piante OGM occorrono geni che conferiscano i caratteri genetici desiderati. Ma questi geni sono disponibili per le nostre ricerche? Inoltre, l’applicazione della metodologia comporta grandi spese?
    Geni per caratteri specifici devono essere isolati e caratterizzati da chi ne ha uno specifico interesse. Ma la reperibilità dei geni non costituisce un problema. Sempre più geni sono isolati, caratterizzati e resi disponili anche dalla ricerca UE, americana ed asiatica. Queste ricerche sono alla portata di qualsiasi buon laboratorio di biologia molecolare dotato di sufficiente supporto economico. Geni sono anche resi disponibili da colleghi di altri laboratori, previo accordi sull’eventuale sfruttamento della risultante pianta OGM.
    La Tab. 3 offre un quadro della variabilità dei geni già integrati nel DNA di piante di interesse agrario e utilizzati in Italia nelle sperimentazioni in campo prima del divieto. Come si nota, molti geni sono correlati direttamente o indirettamente con caratteri genetici legati alla qualità del prodotto e alla resistenza ai parassiti.
    Un esempio di pianta OGM di nostro esclusivo interesse è quello del pomodoro San Marzano. Questa cultivar dava, sino a pochi anni fa, più del 20% della produzione di pomodoro nel napoletano, oggi questo valore si è ridotto a meno dell’1%. La causa? L’inasprimento dei danni provocati dal CMV, un virus che attacca la piantina e ne distrugge il prodotto. Il virus è divenuto più patogeno con l’andare degli anni e non è controllabile con interventi chimici: non esistono trattamenti anti-virali applicabili in agricoltura. Si potrebbe rendere il San Marzano resistente al virus attraverso incroci con piante resistenti, ma la varietà di pomodoro così ottenuta non potrebbe più chiamarsi San Marzano. Ciò non costituirebbe un problema in un Paese in cui non vi fosse attenzione al prodotto tipico. Da noi, invece, vi è sia la necessità di andare avanti con la selezione di nuovi prodotti di qualità, sia anche la necessità di salvaguardare la tipicità dei prodotti nazionali.
    Altro caso emblematico è quello del melo della valle d’Aosta. Si tratta di una coltivazione tradizionale della valle che radica nel medioevo ed ancora più in là nel tempo. Oggi questa coltivazione è messa seriamente a rischio dall’aumentata aggressività di un insetto, la Melolontha melolontha. Questo coleottero trova condizioni ottimali per la sua riproduzione in Valle d’Aosta e nella contigua Svizzera. Le sue larve si cibano delle radici del melo. Ogni 3 anni si ha lo sfarfallamento con l’infestazione di nuove zone. Piante adulte riescono a sopravvivere, ma nuovi impianti con giovani piante sono resi inattuabili. Non esistono interventi efficaci per combattere la Melolontha. L’unico intervento utile è l’integrazione di un opportuno gene capace di conferire resistenza all’insetto. L’integrazione può essere fatta nella parte radicale della pianta, visto che il melo coltivato è innestato su di un porta-innesto. La parte aerea non è dunque OGM. E quello che abbiamo già fatto nel nostro laboratorio di ricerca presso l’Università di Milano (Barbara Basso e Francesco Sala). Il gene da noi integrato ha reso in effetti le cellule radicali tossiche per la Melolontha. Questo almeno in saggi di laboratorio su piantine cresciute in serra in condizioni di contenimento, come vuole la legge italiana. Nulla è possibile dire di più a causa della proibizione di ripetere le prove in campo.
    Altro caso significativo è quello del pioppo. Si tratta anche in questo caso di una collaborazione del mio laboratorio di ricerca con Istituti di ricerca della R.P. Cinese. Il pioppo, sia in Italia, sia in Cina è spesso soggetto ad attacchi da parte di un insetto, la Lyimantria dispar, che si ciba delle sue foglie. Ripetuti attacchi da parte di questo lepidottero possono portare anche alla morte della pianta. Non sono risolutivi e comunque, non sono economicamente ed ambientalmente convenienti, trattamenti con insetticidi. L’integrazione nel DNA del pioppo di un gene isolato da Bacillus thuringiensis ha reso le piante resistenti al parassita. Più produttività, più salvaguardia dell’ambiente, meno interventi chimici. Ciò è già una realtà in Cina, ove sono già oggi coltivate migliaia di ettari di questo pioppo OGM. Potrebbero esserlo anche in Italia. Ma anche in questo caso la cosa non è permessa. E si noti che i pioppo coltivati in Cina sono in maggior parte frutto della selezione genetica operata nei laboratori di ricerca sul pioppo di Casale Monferrato!
    Molti altri esempi si potrebbero fare sui vantaggi che il prodotto tipico italiano potrebbe trarre dall’appropriato utilizzo della metodologia OGM.. Infatti il problema non è ristretto a pochi specifici casi. Inoltre, il breeder, cioè il miglioratore genetico delle piante vegetali coltivate sa che le nuove selezioni non possono durare in eterno. Parassiti più aggressivi possono, anche entro pochi anni, rendere inutilizzabile una nuova cultivar (cultivated variety) e ciò può rendere indispensabile un continuo lavoro di miglioramento genetico. Nuove esigenze commerciali possono creare nuove aspettative. Ma non vi è spazio in questo scritto per una loro trattazione. Rimando perciò ad un nostro specifico trattato dato alle stampe nel 2003 (Basso et al., Biotecnologie per la Tutela dei Prodotti Tipici Italiani, 21° Secolo, Milano, 2003) .

    6. Piante OGM e percezione pubblica. In Italia, la campagna anti-OGM ha dato alle multinazionali del seme l’esclusiva degli OGM!
    I successi della ricerca italiana rischiano di restare puramente accademici. Le informazioni che arrivano all’opinione pubblica sulla natura della metodologia OGM e sulle sue applicazioni sono ancora fuorvianti. I messaggi che raggiungono l’opinione pubblica sono che, comunque, le piante OGM sono pericolose per la salute, per l’ambiente, per il prodotto tipico e per le coltivazioni dei Paesi poveri. Sono messaggi difficili da sfatare, anche con argomenti logici e con dati di fatto.
    La scienza si è chiesta sin dal momento della messa a punto della metodologia OGM, se questa possa introdurre situazioni di rischio per la salute umana. Molta ricerca è stata sviluppata a proposito. Dopo una approfondita analisi, costata 70 milioni di Euro e che ha coinvolto 400 gruppi di ricerca pubblica della UE, già nel 2001, Philippe Bousqin, Commissario della C.E. stessa, ha potuto affermare, nel rapporto conclusivo, che le piante OGM non presentano nuovi rischi rispetto alle piante attualmente coltivate. Anzi sono più sicure di quelle non-OGM perché più accuratamente controllate dalla scienza prima della loro coltivazione. Per tutte le altre piante oggi coltivate è prassi che nessun controllo preventivo venga effettuato per qualsiasi nuova selezione genetica. I controlli si faranno posteriormente solo se le piante mostreranno indizi evidenti di pericolosità per l’uomo o per l’ambiente. Nonostante ciò l’opinione pubblica diffida delle piante OGM. Gli studiosi di comunicazione sostengono che ciò potrebbe essere dovuto proprio al nuovo approccio cautelativo. “Le piante OGM possono presentare rischi?” Ci si è chiesti. “Verifichiamo questa possibilità”. “Ma se si fanno controlli”l’opinione pubblica si chiede “allora i rischi ci sono”. Ed allora, si richiedono maggiori controlli. “Ma maggiori controlli non corrisponderanno a maggiori rischi?” Così un crescendo perverso si instaura e risulta impossibile convincere l’opinione pubblica che i controlli sono appunto serviti per verificare l’assenza di rischi insiti nella metodologia e di rischi specifici insiti in ciascuna specifica applicazione.
    L’agricoltura tradizionale e l’agricoltura biologica, basate sulla autocertificazione, semplicemente non presentano rischi perchè nessun rischio è scientificamente controllato. Così succede, ad esempio, che in un prodotto OGM dovrà essere obbligatoriamente certificata l’assenza di sostanze che provocano allergie, mentre il Kiwi oggi in commercio può continuare a contenere ben 15 molecole che provocano allergia!
    E’ la verifica di tutti i presunti rischi che porta OGM a più di 20 milioni di Euro il costo di tutte le ridondanti certificazioni oggi necessarie per l’approvazione di una pianta OGM. Ma questo costo risulta insopportabile per i prodotti nazionali e limita le applicazioni della metodologia OGM alle grandi colture delle multinazionali.

    7. L’Italia non è un Paese libero da OGM!
    Nel nostro Paese è diffusa la convinzione che i prodotti OGM sono proibiti e che, quindi, non arrivano sulle nostre tavole. Contribuiscono a ciò anche i mezzi di informazione che non danno sufficiente rilievo ad un fatto fondamentale: noi non possiamo coltivare piante OGM nei nostri campi, ma possiamo importare OGM da qualsiasi nazione e possiamo legalmente utilizzarli anche in alte quantità.
    Dunque il paradosso è che una persona che sia fortemente convinta dei suoi principi anti-OGM e che voglia quindi limitarne l’utilizzo nella sua alimentazione, potrà farlo se è strettamente vegetariano. Potrà infatti scegliere cereali e legumi coltivati in campi certificati liberi–da-OGM. Ma se questa persona beve latte e mangia anche carne, troverà estrema difficoltà a soddisfare le sue convinzioni. Infatti, il nostro Paese obbliga a dichiarare in etichetta la scritta “contiene OGM” se un prodotto vegetale (ad esempio, mais) contiene OGM in concentrazione superiore allo 0,9%. Invece non vi è alcun obbligo di dichiarare che un animale è stato allevato con foraggio OGM, anche in percentuale del 100%. E’ perfettamente legale, nel nostro Paese, importare animali allevati con OGM e, addirittura, importare mangimi OGM da usare come foraggio per i nostri allevamenti. Se si pensa che quasi il 90% della soia coltivata nel mondo e più del 50% del mais sono OGM, possiamo verificare come l’OGM sia una scelta ormai obbligata per i nostri allevatori. Anche i nostri prosciutti ed i nostri formaggi tipici non sfuggono a questa regola.
    E’ anche dimostrato che, nel caso del mais, l’uso di OGM nell’alimentazione animale riduce drasticamente la presenza di tossine cancerogene. La Fig. 10 riassume i dati resi pubblici dal nostro Ministero delle Politiche Agricole e Forestali. I dati, prodotti da una ricerca effettuata dall’ Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione, un organo del Ministero stesso, e resi pubblici nel Novembre 2007, sono impressionanti. Essi infatti dimostrano che se in Italia fosse permessa la coltivazione di mais OGM, avremmo un aumento di produttività, per ettaro, del 28-43%. Ed ancora più interessante, avremmo in questo mais una diminuzione di 100-130 volte del contenuto in fumonisina. E’ questa una sostanza estremamente cancerogena che viene prodotta da funghi che crescono sulle pannocchie del mais quando la pianta è infestata dal lepidottero che parassita le piante.

    8. L’agricoltura biologica del futuro sarà un’agricoltura OGM
    In definitiva, l’agricoltura biologica del futuro sarà un’agricoltura OGM. Sino a quando non si accetterà questa realtà, io continuerò a diffidare della coltivazione degli attuali vegetali con il metodo biologico. Principale fine dell’agricoltura biologica è quello di ridurre l’uso della chimica in agricoltura. Ma come si fa a ridurre i trattamenti chimici se si coltivano piante selezionate in passato e caratterizzate da sensibilità ai parassiti più diversi? Riduzione dei trattamenti chimici è già possibile in piante OGM (mais, cotone, pioppo e molte altre), ma ciò è stato realizzato dall’integrazione di opportuni geni.
    Con l’uso delle metodologie più moderne potremo quindi ottenere il miglioramento genetico delle piante coltivate aumentando la resistenza ai parassiti e stabilizzando la produttività e la qualità, anche in zone oggi poco adatte alle coltivazioni. L’uso degli approcci tradizionali e di quelli OGM per il miglioramento genetico delle piante coltivate ci permetterà di aumentare sensibilmente anche la produttività per unità di superficie venendo incontro alle esigenze nutrizionali dei Paesi poveri, ed anche di quelle commerciali dei Paesi ricchi.
    Non è questo l’obiettivo dei propugnatori dell’agricoltura biologica? L’attuale approccio “biologico” ha un difetto di base: vorrebbe ottenere i suoi scopi utilizzando le piante attualmente disponibili, quelle della vecchia generazione, quelle selezionate per essere cresciute con innumerevoli trattamenti chimici (antiparassitari, fitoregolatori ed altro). Si vorrebbe un ritorno all’agricoltura dei nostri nonni, quando i raccolti erano frequentemente distrutti dai parassiti perché non esistevano antiparassitari, quando i prodotti alimentari erano spesso contaminati da aflatossine cancerogene e da altre composti tossici e quando la produttività era bassa e discontinua nei diversi anni. Si pensi che ancora oggi molte coltivazioni di melo arrivano alla nostra tavola dopo aver subito 20-30 trattamenti chimici. Senza di essi non avremmo quel bel prodotto finale, quelle belle mele uniformemente colorate di rosso, anche se qualche volta senza sapore, che vediamo esposto dai nostri ortolani.
    La coltivazione di piante OGM può dunque portare notevoli vantaggi all’uomo e all’ambiente. I dati statistici dicono che negli USA ed in Canada, ove le coltivazioni OGM sono largamente diffuse da più di dieci anni, l’impiego di insetticidi e di fitofarmaci è diminuito, nello stesso periodo, di più del 10-12 % Nella U.E. le statistiche invece dicono che nello stesso spazio di tempo vi è stato un incremento del 10% del loro uso. Come si accorda questo dato di fatto con l’attuale campagna europea anti-OGM? Come si giustifica l’attuale campagna in favore delle produzioni “biologiche” quando queste non assicurano alcuna stabilizzazione della produttività e una sufficiente sicurezza sanitaria?
    Il mais biologico del futuro inizia ad essere una realtà, con l’integrazione di gene Bt che conferisce resistenza alle infezioni da insetti. Il pomodoro coltivato nel prossimo futuro resisterà ai virus patogeni perché porterà inserita nel suo DNA una breve sequenza anti-senso del virus che oggi lo distrugge. Le coltivazioni di pioppo nella R.P. Cinese (8 milioni di ettari oggi, 16 nel prossimo futuro) non richiederanno insetticidi e non interferiranno con la biodiversità del pioppo naturale, perchè saranno dotate di un gene di sterilità (il pioppo si riproduce per talea e ciò rende inutile la produzione di semi.). E questi non sono che alcuni esempi di quello che la scienza può fare e che farà nel prossimo futuro, per migliorare la produttività agricola nel rispetto della salute umana e dell’ambiente!
    La scienza ha le idee chiare sulle potenzialità della metodologia. Purtroppo l’opposizione ideologica alla metodologia OGM è ancora alta in molti settori politici. Ciò influenza i mass-media e l’opinione pubblica. La cosa è paradossale: ci si oppone all’uso di una nuova metodologia per il miglioramento genetico, non agli scopi da esso perseguiti. E questo oggi pare assurdo, soprattutto considerando il fatto che la scienza ha ormai ampiamente dato ampie rassicurazioni sulla sicurezza e sui vantaggi della nuova tecnica.


    Notizie sull’autore

    Francesco Sala
    Nato a Legnano (Milano) nel 1938, si laurea, presso l’Università di Pavia, in Farmacia nel 1961 e in Scienze Biologiche nel 1963. Dal 1960 al 1967 sviluppa la sua attività di ricerca scientifica dapprima presso l'Istituto di Genetica dell’Università di Pavia, poi, dal 1964, presso il Prairie Regional Laboratory, Saskatoon, Saskatchewan. Canada e, successivamente presso il Department of Biological Sciences, Purdue University, West Lafayette, Indiana, USA. Rientrato in Italia nel 1967, è Assistente Ordinario presso l'Istituto di Botanica dell’Università di Pavia e, successivamente, Ricercatore presso l'Istituto di Genetica Biochimica ed Evoluzionistica del C.N.R. (Pavia).
    Nel biennio 1975 e 1976 è Presidente della Società Italiana di Fisiologia Vegetale e, nel 1975 è fondatore della European Society for Plant Physiology. Nel 1983 gli è attribuito il premio Baccarini-Melandri per il suo apporto originale allo sviluppo della Fisiologia Vegetale. Nel 1983 è Professore Associato di Biochimica Vegetale dell'Università di Pavia. Dal 1986 al 1995 è Professore Ordinario di Botanica presso l’Università di Parma. Dal 1987 al 1997 è responsabile, nell'ambito del World Laboratory Project (corodinatori A. Zichichi e L. Santi), dello sviluppo di progetti di Biotecnologia Vegetale nella Repubblica Popolare Cinese. Nel 1989 è membro del Transnational Expert team della UE per la valutazione di programmi di ricerca ECLAIR nel settore agro-industriale. Nel 1994 gli è conferito il titolo di Professore Onorario presso la Nanjing Forestry University, China. Nel 1995 gli è conferito lo stesso titolo presso la Chinese Academy of Forestry, Beijing, China. Dal 1995 è Professore di Botanica presso l'Università di Milano e qui è nominato Delegato Rettorale per i tre Orti Botanici dell’Università. Nel 2002 è stato membro del Comitato Nazionale per la Biosicurezza e le Biotecnologie della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Nel 2005, il Ministero dell’Ambiente gli affida la direzione scientifica del progetto di ricerca triennale italo-cinese dedicato allo “Sviluppo agricolo nel rispetto dell’ambiente”. L’attività scientifica è documentata da 130 pubblicazioni originali su riviste scientifiche internazionali (con revisori), 8 libri didattici e diversi libri di divulgazione.




    FINE TESTO

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